giovedì 16 maggio 2013

Stefano D’Orazio, una vita da Pooh.

Stefano D’Orazio, una vita da Pooh, l’intervista: In questo libro vi racconto tutto di me


Stefano D'Orazio
  • Stefano D'Orazio
Un libro per raccontare non solo una lunga carriera (prima, durante e dopo i Pooh), ma soprattutto gli alti e i bassi di una vita rocambolesca. Nelle 400 pagine di «Confesso che ho stonato» (ed. Feltrinellli/Kowalski), Stefano D’Orazio dedica alla sua adolescenza, ai primi amori e agli esordi come musicista lo stesso spazio riservato ai 38 anni vissuti da batterista dei Pooh. Il risultato è un racconto autobiografico, sempre autentico e spesso senza veli, in cui gli episodi divertenti si alternano a momenti di grande dolore proprio come i successi professionali si alternano agli inciampi. Ne abbiamo parlato con l’autore nel corso di una lunga chiacchierata.
Stefano, perché così tanto spazio alla vita prima dei Pooh?
«Le prime volte sono quelle che uno ricorda di più: le prime amicizie, il primo bacio, i primi spaventi, la prima batteria, il primo gruppo. In quel periodo ho commesso tanti peccati che volevo condividere con il mio pubblico. In quei dieci anni, prima dei Pooh, sono successe cose che non erano mai state raccontate finora, mentre i 40 anni successivi bene o male sono già stati descritti nelle biografie dei Pooh».
Per un ragazzo che vuole fare musica cos’è cambiato rispetto a 50 anni fa?
«Una volta facevamo tutto da soli, iniziavamo a suonare per cuccare, emulando i nostri idoli. E salivamo sul palco senza sapere che cosa piacesse al pubblico, cambiavamo rotta in base alla reazione di chi ci ascoltava. Oggi i tempi si sono ridotti, chi sale su un palco è già bravo e diventa subito popolare, spesso grazie ai talent. Ma è una formula sbagliata perché non dà all’artista la consapevolezza di cosa c’è sotto il palco, non gli fornisce gli strumenti per vivere bene le 22 ore al giorno in cui non sta su quel palco».
Ha mai pensato a cosa sarebbe stato di lei se i Pooh, nel 1969, non avessero deciso di cambiare batterista?
«Non lo so, forse avrei smesso di fare il suonatore di tamburo e sarei rientrato nella normalità, magari sarei diventato un avvocato e oggi avrei uno studio legale invece di uno studio incisione. A quei tempi, suonare non era considerato un mestiere. E infatti mio padre, anche quando ormai avevo i dischi di platino e i Telegatti, mi ripeteva sempre: “Non vorrai suonare il tamburo tutta la vita?”».
Nel libro sostiene di non essere mai diventato un grande batterista. Falsa modestia o lo pensa veramente?
«Ne sono convinto. Di recente mi è capitato di riascoltare le prime incisioni del Punto, il mio primo gruppo importante. E mi sono reso conte che le cose che facevo allora, influenzate dal rock, non saprei più ripeterle. Le ho abbandonate per dedicarmi alla melodia italiana, che ovviamente non aveva bisogno di quella roba là».
Tra tutte le conquiste descritte nel libro, due restano senza nome: una famosa annunciatrice Rai e una bionda attrice americana. Come mai?
«Perché sono state solo un’avventura, un gioco. Faccio i nomi, invece, delle donne che hanno rappresentato un sentimento vero, un batticuore».
Nel libro, accanto a tante situazioni imbarazzanti e divertenti, lei dà spazio anche ad alcuni momenti di grande dolore. In che modo questi episodi drammatici hanno influenzato il suo rapporto con la carriera?
«Più che altro hanno lasciato un segno nel rapporto con me stesso, hanno cambiato la mia valutazione delle cose importanti della vita. Però ricordo ancora quando scrissi una canzone per mio padre, che era morto qualche mese prima, e gli altri Pooh la scartarono perché la giudicarono deprimente, era meglio un’altra canzone d’amore. Lì capii che era inutile che come artista tirassi fuori quello che avevo dentro, e che forse il successo, gli applausi, le lucine delle telecamere mi avevano fatto lasciare alle spalle la vita vera. In quel momento mi sono sentito ferito. Certo, era la decisione giusta in un’ottica di marketing, ma era umanamente sbagliata. Piansi allora e mi viene da piangere adesso».
Questo rigore all’interno dei Pooh ha certamente contribuito alla loro longevità. Ma davvero non era possibile una gestione del gruppo che tenesse in maggiore considerazione i vostri sentimenti personali?
«Certo, del resto a turno tutti abbiamo subito il rigore di queste regole mai scritte ma sempre applicate. Quando Fogli si innamorò di Patty Pravo, per esempio, non fummo in grado di perdonargli l’aver anteposto i suoi sentimenti alla musica e al lavoro. Forse l’unica volta in cui i Pooh hanno fatto prevalere il sentimento è stata quando ho comunicato la mia intenzione di lasciare il gruppo. Una decisione che non hanno condiviso ma che hanno capito senza opporsi, dando più importanza alla mia felicità che al futuro del gruppo. Si sono comportati da amici e non da colleghi».
Nel suo futuro vede una reunion con i Pooh, magari nel 2016 per i 50 anni?
«La escludo perché tutto quello che mi potevano dare la batteria e il palcoscenico l’ho preso tutto con gli interessi, e mi sembrerebbe quasi un sacrilegio riaffrontare una situazione così straordinariamente bella. Meglio rimanere con il ricordo. Ho appeso le batterie al chiodo, e dall’ultimo concerto del 2009 non ho mai più suonato. E pensi che prima di Natale ho ripreso in mano due bacchette che stavano in una mensola della cucina, dentro una tazza. Ho provato a rigirarle tra le dita come facevo un tempo e al primo tentativo mi sono cadute a terra. Lì ho capito che il mio rapporto con la batteria è esaurito in tutti i sensi».
Valerio Negrini (autore di quasi tutti i testi dei Pooh, scomparso lo scorso 3 gennaio, ndr) ha fatto in tempo a leggere «Confesso che ho stonato»?
«C’è un capitolo dedicato a lui che se il libro fosse uscito oggi avrei fatto togliere. Perché sembra pieno di quelle classiche cose che si dicono quando uno muore. E invece è tutto vero, per lui provo un’ammirazione e un affetto grandissimi, e ancora oggi parlo di lui al presente. Per me c’è sempre, è una presenza morale».
Lei prese il suo posto dopo che Roby, Riccardo e Red lo buttarono fuori. Questa cosa creò problemi tra voi due?
«No, in realtà si creò subito un feeling tra batteristi, che poi in gruppo sono sempre i più “cazzari”. Chissà perché, saranno le frequenze dei tamburi e dei piatti che ci shakerano il cervello. E comunque Valerio sdrammatizzava sempre, era un fatalista».
Perché i suoi testi migliori non hanno mai avuto i riconoscimenti e gli onori che meritavano? Lei nel libro scrive che un giorno li studieranno nelle scuole.
«Tutto questo è conseguenza delle scelte di marketing che ci hanno fatto dare più visibilità alle canzoni romantiche, quelle più facili. Pensi a “Poohlover”: c’era “Pierre” con “Tra la stazione e le stelle” e tanti altri pezzi impegnati, ma fu lanciato con “Linda”. E così tutti gli altri album venivano lanciati con la “Linda” di turno, mettendo in ombra le canzoni migliori. Per questo abbiamo dovuto subire la ghettizzazione da parte dell’intellighenzia musicale. Cantavamo “Inca”, “Lindbergh” ma per la critica e la discografia eravamo sempre il gruppo delle sciampiste».
Però poi a Sanremo siete andati con «Uomini soli»…
«E abbiamo vinto rischiando. È stato allora che abbiamo capito che la gente è in grado di emozionarsi con le canzoni emozionanti. Forse, fino a quel momento, avevamo sottovalutato il grande pubblico. Chissà, se l’avessimo capito prima oggi tutti ci ricorderebbero più per “Pierre” che per “Linda”».
Scritto da: antonio mustara

Lascia un Commento

Nessun commento:

Posta un commento